Arte Contemporanea

Per Raccontare Con L’Arte, La telefonata, di Elettra Nicodemi

Introduzione

Raccontare con l’arte è un progetto del Museo Ugo Guidi; scrittori già affermati sono invitati a partecipare con un racconto ispirato da una delle figure totem del maestro Ugo Guidi.

Anche io mi sono cimentata con questa call, così è venuta fuori questo racconto intitolato, La telefonata, sottotitolato, Il dottor Ozumab cerca aiuto.

Avete già visto i totem del maestro Ugo Guidi, avete già provato a indovinare quale ho scelto?.


Le figure totem di Ugo Guidi

“Agli inizi degli Anni ’70 l’artista Ugo Guidi realizzò una cartella di 6 xilografie (incisioni su legno) che rappresentano Figure Totem ispirate dai blocchi di marmo che in quegli anni venivano estratti dalle cave con i martelli pneumatici e che conservavano sui bordi i relativi semifori. Il Maestro, nato nel marmo e poi sempre più legato al calore e al colore della pietra e della varietà dei materiali lapidei, umanizza il blocco facendo diventare il semiforo un occhio, quasi sempre femminile, ma allo stesso tempo il blocco conserva la memoria della cava dalla quale è stato estratto, come lo testimoniano i piani di cava presenti in ogni opera”.

MUG, Museo Ugo Guidi

scrivere un racconto ispirandosi a una di esse

Una rappresentazione, un sogno idealizzato dedicato a quel marmo dal quale era partito nelle sculture delle opere giovanili, un omaggio al marmo che realizza nella piena maturità artistica contemporaneamente nei disegni, nella pittura e nella creta.

MUG, Museo Ugo Guidi

Partecipo con il racconto Fantasy

La telefonata 

Il dottor OZUMAB cerca aiuto.

Ogni riferimento a fatti, persone o cose realmente esistenti o esistite è puramente casuale.

Licenza Creative Commons

A Vittorio Guidi

Spense la automobile.

Sul sedile dell’auto, piombò nel buio.

Dunque chiuse gli occhi per il tempo di un respiro profondo, ebbe il tempo di inalare l’odore della pelle dei sedili, una pelle di recente restaurata, ancora fresca, tipica della sorta auto d’epoca che gli avevano regalato i suoi; Matteo Pini aveva soli diciotto anni e otto mesi e quella era la prima sera, la prima volta che guidava l’auto, da solo, e la prima volta che la guidava così a lungo. 

Aveva preso la patente nel pomeriggio e quello era il suo primo viaggio, lo aspettava, lo attendeva da anni, da sei anni otto mesi e un giorno, per un totale di un numero imprecisato di lune. 

Nel mentre che chiuse gli occhi e le luci di cortesia si accendevano all’interno dell’abitacolo, le luci della tavola calda Da Quasimodo si erano fatte avanti; si erano allungate abbastanza da toccare la carrozzeria con la verniciatura nuova di zecca, si erano allungate incrociando la luce stessa dei fanali dell’auto, ancora accesi; adesso che i suoi occhi lentamente si aprivano, scollando ciglia dopo ciglia, lentissimamente si aprivano, abituandosi alla semi oscurità e all’idea di essere arrivato nel posto giusto, di lì a poco avrebbero toccato anche il suo giacchetto di ecopelle color senape. 

La tavola calda Da Quasimodo era un locale per famiglie, in tipico stile stutinetense, a ora di colazione servivano caffé nero lungo, pancake, sciroppo d’acero, e tutto quello che Domineiddio si poteva desiderare, uova strapazzate, gelato alla fragola e persino un budino alla vaniglia che andava giù come nettare.

Era forse una ventina di anni che era aperto, era stato rilevato da una vecchia sartoria, la sartoria da Quasimodo, da cui il locale da ristoro si era tenuto il nome, si era poi allargato, prendendo tutto il piano terra del palazzo.

Nel frattempo le conifere ai lati dell’edificio si erano accresciute, su di un lato in particolare era stato costruito un ampio parcheggio, la viabilità era stata modificata e quel posto sembrava essere al di fuori del normale traffico cittadino, dentro una dimensione altra, più riflessiva, più lenta, ovvero la stessa identica sensazione che si aveva quando si varcavano le larghe porte a vetri sotto l’insegna in ferro battuto Tavola Calda, quando si passava accanto al cartellino Da Quasimodo Siamo Aperti a Colazione, sotto, a Pranzo, sotto e a Cena.

Aspettava quel momento da anni, prima di così non si poteva fare,aveva preso la patente nel primo pomeriggio e si era messo in viaggio, il tempo di rientrare nel vialetto di casa, montare su quell’auto da sogno, preparata di fresco e con il serbatoio del carburante pieno.

Matteo Pini rimosse le chiavi dal blocchetto di accensione, le infilò nella tasca dei pantaloni, scostò i lunghi morbidi riccioli castani dagli occhi e aprì la portiera, era arrivato. 

Il dottor Ozumab era a metà tra una lucertola e un ratto, viveva alla tavola calda da molto tempo, per la precisione stava sotto un tavolino, attaccato alla parte sotto del ripiano, di solito teneva la lunga coda attorcigliata a una delle gambe del tavolino e non si era mai fatto vedere da nessuno, Ozumab stava nascosto, lì da una ventina d’anni e prima di quell’epoca in cui la sartoria fu trasformata in Tavola Calda, stava sotto il bancone del sarto, il Signor Quasimodo Genovesi, titolare della piccola attività. 

Sul suo lontano pianeta, Ozumab era un dottore, un medico, per essere chiari.

E anche qui sulla Terra, svolgeva la sua attività di guarigione in modo silente, senza far accorgere l’ignaro paziente del suo influsso benefico; con la sua modesta aura di guarigione aveva guarito più di un cliente della tavola calda, tra quelli che sentivano il bisogno di sedersi al tavolo sotto cui lui si nascondeva.

Ma quel giorno di sei abbondanti anni prima, era stato visto, forse aveva scelto di farsi vedere, quella volta, ma da un solo cliente in venti anni, ovvero da Matteo Pini e lui stava varcando di nuovo la soglia del locale proprio adesso, in perfetto orario, stando all’orologio del dottor Ozumab.

Vi starete chiedendo come sia possibile che ci siano voluti interi sei anni e otto mesi a un ragazzo in gamba come Matteo Pini per raggiungere quel locale dove era stato da ragazzino e dove aveva visto per la prima volta quella creatura, ma una bella lista di cose aveva da andare per il verso giusto per trovarsi in giro a oltre trecento chilometri di distanza da casa, da solo, e senza che nessuno avesse da fare, per così dire, storie, in caso gli avessero chiesto i documenti. 

Ebbene il dottor Ozumab quella sera lo aspettava comodamente seduto in sembianze umane su di una seggiola del tavolo sotto cui normalente si nascondeva.

Il dottor Ozumab vestiva con un completo bianco, teneva i suoi totem per contattare il mondo da cui veniva riposte nel taschino interno della giacca e attendeva il giovane Matteo, dando le spalle alla porta, guardando la luce dei lampioni che si stendeva sulla strada. 

Entrando Matteo Pini, ignaro, indicò per sedersi il tavolo accanto a quello di Ozumab; appena si fu liberato della cameriera, una ragazza, una donna sulla trentina con una pesante frangia di capelli sugli occhi, gettò a terra un tovagliolo, una scusa, per gettarsi a guardare sotto al tavolo dove adesso sedeva Ozumab.

Ricordava di aver visto lì quella creatura quel giorno.

Ozumab con un ghigno sul viso appena Matteo si fu chinato con la testa sotto al suo tavolo personale, farfugliando scuse sul tovagliolo caduto, gli afferrò un polso con lunghe dita unghiute e gli bisbigliò all’orecchio, 

-E’ me che cerchi-.

Matteo sentendosi preso per il polso, e sentendo l’alito caldo del’uomo nel suo orecchio, si volto in preda ad una sensazione che non era ancora volontà di fuga e non ancora combattività, era ancora panico puro e semplice.

Come faceva quello strano individuo a sapere cosa cercava, e chi era?

Dopo che Ozumab ebbe allentato la presa, Matteo si ricompose, si scansò i lunghi riccioli castani dagli occhi con la mano libera,  si sistemò le chiavi dell’automobile ben a fondo nella tasca dei pantaloni; era a trecento chilometri da casa, e forse, era arrivato a ciò che stava cercando da… all’incirca tutta la sua vita, ovvero da oltre sei anni a questa parte: il dottor Ozumab.

-Tu, tu sei la lucertola-topo che stava qui sotto, ti riconosco-.

-Sono io, mio caro Matteo, bentornato-.

-Caro a chi? Io non ti conosco. Come ti chiami e cosa sei?-.

-Sono il dottor Ocrelizumab, Ozumab per gli amici, e ho bisogno di fare una telefonata-.

-Tu appari nei miei incubi da oltre sei anni e ora che sono qui, mi dici che devi fare una telefonata? Potevi chiedere alla cameriera, dannato vampiro!-.

– Non sono un vampiro e non è una semplice telefonata-.

Il dottor Ozumab tirò fuori dal taschino della giacca uno dei totem che aveva lì, al sicuro, dopo averlo scelto accuratamente, spostandoli con un dito e sbirciandoli uno dopo l’altro, nel taschino interno della giacca. 

– Devo usare questo per chiamare e solo tu sul pianeta Terra puoi aiutarmi a usarlo-.

Matteo prese dalle lunghe dita serrate di Ozumab il totem, un foglietto, poteva sembrare il disegno di una tessera, che a sua volta poteva sembrare una pietra, con un opale blu incastonato che a sua volta poteva sembrare l’occhio spalancato di un camaleonte.

Matteo Pini, esclamò a mezzavoce, -Fantastico!-.

Era quello che diceva di solito quando non poteva dire altro.

 Italia, lì 27/02/2023.

di Elettra Nicodemi

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