Letteratura

Una vita sotto il cielo

Una vita sotto il cielo è un romanzo di Elettra Nicodemi

  • Dedicato a

Ai caduti della Seconda guerra mondiale e a Louis Sepulveda, riposino in pace

  • Citazioni di apertura

À fréquenter le chat, on ne risque que s’enrichir, Colette.

L’encrier ne se vide jamais quand il s’agit d’écrir sur les chats, Jean-Louis Hue.

Sus ojos amarillos/ dejaron una sola/ ranura/ para echar las monedas de la noche, Pablo Neruda.

  • Ringraziamenti

Vorrei ringraziare tutte le persone che mi vogliono bene. 

E salutare le altre.

Capitolo 1

Ave oh Maria madre di Dio, piena di grazia il signore è con te, tu sei benedetta tra le donne è benedetto il frutto del tuo seno Gesù, Santa Maria Madre di Dio prega per noi peccatori adesso e nell’ora

Preghiera Ave o’ Maria

Non posso parlare.

Non posso nemmeno respirare a dire il vero.

Ne va della mia vita.

Spero solo che questo pensiero possa arrivare lontano, lontano, che arrivi anche nel futuro, in un futuro in cui la guerra sarà finita, in cui tutto sarà finito non solo questa situazione.

Tremo di paura così forte che temo i denti mi battano e che dunque mi sentano e ci scoprano per colpa mia, per questa paura che mi attraversa le ossa non solo la carne, non solo la mente e non riesco a respirare bene.

Ho in bocca la mia mano sinistra, con la destra stringo la gamba del letto sotto cui mi nascondo e aspetto.

Devo solo aspettare, solo aspettare continuo a ripetermelo.

Accanto a me Ada, mia cugina; anche lei si è messa la mano in bocca chiusa a pugno.

Ha una paura folle, non posso nemmeno guardarla o scoppio a urlare.

Ha così paura che se io ne ho solo la metà allora non so come sia possibile che io non stia già urlando; che io non sia già morta di paura.

Il cuore mi batte così forte che credo possa scoppiare da un momento all’altro.

Non so nemmeno se un cuore può scoppiare, ma temo che lo sentano battere da dentro al mio petto.

Io lo sento che pulsa nella mia gola come quel giorno in cui ho fatto la strada di casa di corsa per andare a salutare il mio babbo dopo che era tornato, dopo tanto che era partito, la mamma teneva nascosto il pensiero che non l’avremmo più rivisto, mi mancava così tanto, ero così felice che fosse tornato.

Quando tutto sarà finito uscirò da sotto questo letto, usciremo insieme io e Ada e correrò ad abbracciare il mio babbo Armando e a dirgli quanto ho avuto paura e a dirgli che è tutto finito è tutto passato e gli dirò di non preoccuparsi più, gli dirò che non ho avuto tanta paura, che è andato tutto bene, gli dirò, Scherzi? Una cosa da nulla babbo.

Mi scendono le lacrime, mi solcano il volto.

Non posso tirare su col naso, non muoverò un solo muscolo, non posso rischiare che ci sentano.

Forse non pensano che qui c’è una stanza, in fondo al corridoio, scavata nel tufo, no, qui non ci troveranno è stato un buon nascondiglio, non so neanche come ci è venuto in mente di rifugiarci qui, ma dove avremmo potuto andare altrimenti, dove? Dio dimmi, dove? Che il cielo ci aiuti, che Dio in persona, dio se mi senti per favore ti prego aiutaci, fa che non trovino questa stanza, fa che se ne vadano, te lo ripeto scandisco bene, fa che non trovino questa stanza e fa che se ne vadano, ti prego, ti prego dio se puoi sentirmi, non ti ho pregato per il babbo, non ti ho pregato per Fausto, non ti ho mai pregato prima d’ora perché ora ti sto pregando davvero è la prima volta in vita mia che prego col pensiero così forte, Signore Dio onnipotente, ti prego.

Per me, per Ada, fa che se ne vadano che non trovino questa stanza.

Per il babbo, per la mamma, per Fausto che chissà dov’è, per mia sorella grande Armanda, per l’amico Francesco che ci ospita qui a Torano, ti prego fa che se ne vadano morirebbero senz’altro se sapessero che ci hanno trovate, che ci hanno prese sotto questo letto, che ci hanno ucciso, non abbiamo altra via di fuga oltre a questa stanza, se trovano la porta allora siamo in trappola, dio ti prego, dio ti prego, aiutaci, dio aiutami, dio ti prego.

Ho sentito dire una volta molto tempo fa, in chiesa, prima della guerra che tu sei eterno dio, il prete disse che tu sei sempre esistito e esisterai per sempre come se fosse un momento unico, per te non c’è passato, presente, futuro, c’è l’eternità, dio non so se ho ben capito ma ora mi tornano in mente queste parole del sermone, non so perché non so se è vero, ma voglio dirti dove siamo io e Ada, perché forse non lo puoi sapere finché uno non te lo dice chiaro, siamo a Torano un paese sulle Alpi Apuane in Italia, siamo a casa di Francesco il collega di babbo Armando; accanto a me c’è Ada mia cugina, io ho sedici anni da compiere e lei altrettanto; Dio ascoltami, ora ti dico quando, di preciso così lo puoi sapere, dio ascoltami, non posso dire dove siamo, di preciso perché temo che anche loro possano sentirlo e non devono trovarci, è un giorno di luglio del 1944, è in corso la Guerra Mondiale, la seconda, e qui fuori da questa porta, ci sono due guardie naziste che ci stanno cercando, sono due SS, stanno cercando me, io mi chiamo Giovanna Maria Vittoria Chericoni e stanno cercando anche mia cugina Ada.

So che hai tanto da fare che hai tante persone tante persone da guardare, ma Dio io so che puoi sentirmi; se ti rimane un piccolo spiraglio nei tuoi immensi occhi un solo piccolo spiraglio, piccolissimo, guardaci, sia pure da un buchino piccolissimo dei tuoi occhi abbi posto per me e per Ada, manda via quelle SS che ci stanno cercando, fa che non ci trovino, per pietà, non abbiamo fatto niente, siamo innocenti, ascolta io e Ada stavamo tornando da prendere l’acqua potabile, avevamo l’anfora piena quando ci hanno fermate, per questo che io ti prego, l’acqua si è rovesciata, Dio ascolta cosa è successo, siamo scappate, scivolate via come ombre tra di loro che ci afferravano; ci siamo divincolate; sono così alti e grandi e noi così piccole, sono armati fino ai denti, hanno stivaloni con i tacchi e la divisa, come quelle SS che vennero in Covetta a cercare Fausto l’anno scorso dopo l’armistizio dell’otto settembre, sono così crudeli e non sembrano neanche vivi, dio guarda da questa parte, guarda qui, guarda noi, guardaci fosse solo per un buchino, per uno spiraglio nei tuoi grandi e immensi occhi guarda, guarda nel corridoio di marmo è lì che puoi aiutarci, oltre questa porta dove ti sto pregando, nel corridoio ci sono due SS che ci stanno cercando, stanno cercando me e Ada, mandale via; dio abbi pietà di noi, abbi pietà, non abbiamo altro che noi stessi.

Il rumore dei tacchi cessò. 

Fu un interminabile momento eterno.

Fu silenzio, e nient’altro.

Poi il rumore dei tacchi riprese, stava andando nella direzione opposta, si allontanavano.

Poi il rumore sparì di nuovo.

Troppo lontano per essere udito.

Avevano percorso il corridoio lastricato di marmo in direzione opposta rispetto alla camera scavata nel tufo; probabilmente erano di nuovo nella casa che affaccia sulla strada e di lì a poco sarebbero usciti; sperabile.

Probabile che distruggessero tutto nella casa a causa della frustrazione di aver perso due ragazzine o che si attardassero nella sala comune a fare i padroni e ad aspettare che saltassimo fuori.

Se ne andarono. 

Capitolo 2

Kenji Niscioka guardò il cielo, ammiccando. Il sole lo abbagliava. Gli occhi simili a fessure nel viso rotondo come la luna piena sembravano ora due sottilissime pennellate di inchiostro di china.

Il gran sole di Hiroshima, Karl Bruckner

Giuliano mi sta chiamando, sono dentro il Nuraghe di Abbasanta in Sardegna, Lucilla ha quattordici mesi, ecco la piccola è venuta a chiamarmi, mi sta tirando la gonna verso il basso, le dico sempre suona le campana tesoro, se mamma è distratta suona la sua gonna; mi sono persa di nuovo nei ricordi della guerra, purtroppo. Non ho più sedici anni da compiere, ma trentuno da compiere, siamo nel 1959, sono passati quindici anni da quel giorno di luglio del 1944. Sono sposata da sei anni.

Di sicuro mi sono attardata troppo qui tanto da fare preoccupare mio marito Giuliano, devo avergli detto:

Arrivo tra un momento, come faccio di solito. 

Questa finestrella nella roccia della Nuraghe, mi ha portato indietro col ricordo fino alla stanza scavata nel tufo a Torano il paese sulle Alpi Apuane dove abbiamo trovato ricovero dopo il bombardamento del 12 maggio e dove siamo rimasti fino alla metà di ottobre di quell’anno. 

Uscendo dal nuraghe non vidi nessuno solo cielo azzurro e erba a perdita d’occhio, la bimba attaccata alla gonna.

Fu un tempo abbastanza lungo per un sospiro rinfrancante, la libertà ha un sapore diverso quando è stata tolta, diventa come l’aria che uno respira dopo una lunga apnea.

I miei occhi si posano su Giuliano, è di spalle al nuraghe, rivolto all’orizzonte, seduto su una pietra con un filo d’erba tra le mani, si volta e mi regala il suo sorriso.

Ha una forza che va al di là degli anni, al di là del tempo, un solco profondo fino alla carne del suo cuore.

Per oggi abbiamo organizzato un pic-nic. Il cesto con le vivande è sul muretto a secco. L’ho preparato stamani all’alba prima di dare il latte a Lucilla.

Ho messo dentro il pane in cassetta, del formaggio di pecora, delle fave e olive sott’olio, un barattolo che è da molto che vorrei aprire.

La tovaglia da stendere a terra è pulita di bucato, bianca come il marmo; è la prima volta ne che facciamo uno di pic nic e è la prima volta che veniamo a visitare una di queste costruzioni in pietra,  “i nuraghi”.

Sono antiche postazioni difensive per scrutare chi viene dal mare, stando riparati.

Non hanno il tetto, né infissi o pavimentazione ed essendo fatte di pietra marrone sono mimetici con il paesaggio agreste.

Sull’orizzonte di fronte al nuraghe si scorge il mare, luccicante.

Abbiamo portato dei bicchieri e l’acqua adibendo un fiasco a bottiglia, il tappo di sughero è infilato a fondo così da non farne rovesciare nel tragitto. Credo che la bambina senta sete, gliene darò un bicchiere da bere, nel mentre si apparecchia per pranzare. 

La tovaglia si gonfia nell’aria come la vela di una caravella; i lembi tesi tra le nostre mani divaricate la tengono stesa fino a quando non la adagiamo a terra e così come si posa sulla terra erbosa, si posa sui nostri ricordi dolorosi.

Quando il pranzo sarà consumato, ci sembrerà solo un brutto spavento, lontano, abbastanza lontano, al di là del mare, da non farci più alcun male.

Nella notte sognai.

Nonostante la giornata fosse stata piena di emozioni e nonostante la piacevole rilassante passeggiata in campagna di ritorno dal nuraghe. 

Io e Ada eravamo ancora sotto il letto e pensavamo che saremmo rimaste lì sotto per sempre, ci sentivamo al sicuro, come se il letto fosse diventato la nostra armatura, forse è così che si sentono le tartarughe pensai e la paura si scrollò da dosso.

Uscendo guardai fuori dalla finestrella della stanza, affacciandomi avrei visto il precipizio, la stanza era a strapiombo sul versante della montagna, ma io guardai in alto il cielo azzurro, era di un azzurro schietto tipico delle belle giornate del mese di luglio.

Mi accorsi anche alzandomi che avrei avuto bisogno di andare al gabinetto, per orinare, ma prima che la paura di uscire di casa mi attanagliasse mi avvicinai alla porta per sentire chi fosse a bussare così piano.

Mamma Emilia era venuta per farci uscire dalla stanza, diceva che il pericolo era passato; che eravamo salve.

Quel sogno non era altro che il seguito degli eventi che avevo rivissuto durante il pomeriggio dentro il nuraghe e che erano accaduti nel luglio del 1944.

La stanza era buia a parte per un filo di luce che entrava dall’imposta. L’alba si stava alzando e il letto accanto a me era vuoto e caldo, Giuliano si era alzato da poco.

Poi Stetti in ascolto. Giuliano doveva essersi recato al pozzo a cavarne un’anfora d’acqua potabile, era quello che faceva di solito quando non sapeva dove mettere i piedi; probabilmente prima di alzarsi aveva sentito che mi agitavo nel sonno e non sapendo che fare era andato al pozzo, la stanza da letto affacciava sul giardino della proprietà; potevo sentire cigolare la catenella del secchio.

La bambina nella culla dormiva beata.

Mi rimboccai le lenzuola sopra la coperta leggera, mi sentivo al sicuro e mi sarei goduta quella sensazione il più a lungo possibile. 

Guardando con l’immaginazione fuori dalla finestra, oltre l’imposta chiusa non potevo che ripensare a quei fatti lontani.

Mamma Emilia venne a bussare alla porta dopo un certo tempo.

Io e Ada eravamo ancora sotto il letto e pensavamo che saremmo rimaste lì sotto per sempre, ci sentivamo al sicuro, come se il letto fosse diventato la nostra armatura, forse è così che si sentono le tartarughe pensai e la paura si scrollò da dosso.

Uscendo guardai fuori dalla finestrella della stanza, affacciandomi avrei visto il precipizio, la stanza era a strapiombo sul versante della montagna, ma io guardai in alto il cielo azzurro, era di un azzurro schietto tipico delle belle giornate del mese di luglio.

Mi accorsi anche alzandomi che avrei avuto bisogno di andare al gabinetto, per orinare, ma prima che la paura di uscire di casa mi attanagliasse mi gettai alla porta per sentire chi fosse a bussare così piano.

Mamma Emilia era venuta per farci uscire dalla stanza, diceva che il pericolo era passato, che eravamo salve. 

Seppi solo molto tempo dopo quale fu la cosa che davvero ci salvò a Torano, a parte tutto, a parte queste guardie naziste che seguirono me e Ada e che fu un miracolo che non ci trovarono.

Ci salvammo sia io che babbo Armando, mamma Emilia, Ada e Maria perché Azolino quel giorno non sparò.

Azolino aveva solo diciannove anni quando fu mandato in ricognizione, se così si può dire.

Doveva andare a vedere se vi fossero tedeschi stanziati a Torano e quanti, fu così che i tedeschi sulla strada lo fermarono e gli chiesero, dove andasse e a fare cosa; aveva un fucile dietro.

Glielo avevano dato prima di mandarlo a vedere. 

Capitolo 3

Le reali possibilità della libertà umana sono in rapporto col livello di civiltà raggiunto.

Herbert Marcuse in Critica della tolleranza

Fermo a metà del ponte che stava attraversando, i tedeschi gli intimarono l’alt, alzò le mani.

Le montagne lo guardavano.

Era stato mandato dai Partigiani con cui militava.

Si è saputo che il comandante lo aveva mandato giù dalla montagna a fare un giro di ricognizione in paese, Azolino Marselli passò attraverso il ponticello del paese.

I tedeschi sapevano che in montagna c’erano gruppi di partigiani nascosti. I partigiani mandarono Azolino a vedere. Azolino fu fermato mentre attraversava il ponte.

E non sparò per difendersi.

Lui fu fucilato sul posto, non mosse un altro passo da quel ponte che stava attraversando.

Gli spararono.

Più passava il tempo più ne combinavano, si sentivano in trappola, l’armistizio dell’anno precedente li fece imbestialire, ma con il passare del tempo diventavano sempre più nervosi, crudeli, spietati, le rappresaglie erano serrate.

Capivano che stavano perdendo terreno, la situazione non girava a loro favore.

Azolino è stato un vero eroe.

Non sparò nemmeno un colpo su quel ponte e noi tutti a Torano fummo salvi, altrimenti ci sarebbe toccata la stessa sorte degli abitanti di Sant’Anna di Stazzema, di Bergiola Foscalina, di san Terenzo Monti, di Vinca.

Poteva essere che ci chiudessero in chiesa e poi dessero fuoco all’edificio sacro o che ci fucilassero in piazza.

La legge tedesca era fin troppo chiara e veniva applicata senza ammende: per ogni tedesco ucciso, dieci sarebbero morti.

Nel fatto voglio mettere anche che l’ufficiale delle SS che fece applicare questa legge a Roma il 24 marzo 1944 a quanto pare fu severamente punito, perché fece uccidere 335 persone, invece delle 330 che stando all’orrenda logica di quella legge dovevano pagare con la vita la morte dei 33 tedeschi morti durante l’attentato dinamitardo partigiano di via Rasella a Roma, nel rione Trevi.

Allora io personalmente credo che stessero più attenti a non uccidere a casaccio.

L’attentato di via Rasella avvenne il 23 marzo 1944, ovvero il giorno precedente l’eccidio del 24 marzo 1944, cosiddetto delle “Fosse Ardeatine” perché fu perpetrato dentro delle gallerie sotterranee presso via Ardeatina, si tratta di gallerie per le cave di pozzolana, che si chiamano Fosse Ardeatine.

So di un testimone che nascondendosi vedeva dei camion tedeschi, carichi di persone, andare alle fosse e tornare vuoti.

Fu riaperto dopo molto dopo quel luogo, laggiù era pieno dei cadaveri, di persone uccise, i tedeschi lo avevano scelto perché le fosse avrebbero occultato i cadaveri chiudendo con esplosivi l’entrata delle gallerie.

Andò che Hitler avrebbe voluto addirittura 30 o 50 morti per ognuno dei tedeschi rimasti uccisi durante quell’attentato, perché voleva una rappresaglia memorabile avrebbe voluto in maniera lucidamente delirante una rappresaglia senza euguali, è in effetti così purtroppo tragicamente fu, ma probabilmente quelli non avevano abbastanza persone da uccidere a Roma.

Allora decisero che ne avrebbero uccisi dieci per ognuno, così come già era sancito da quella legge tedesca che stabiliva così.

Un uccellino venne a far visita alla finestra, si posa sul davanzale e inizia a cantare una melodia così triste e limpida che credo si tratti di un usignolo.

Mi decisi ad aprire l’imposta e a far entrare la luce del giorno nella stanza così che potesse fugare le ombre della notte. Così come Cristo fuga i mali dal cuore degli uomini.

Apro le imposte.

I ricordi e i fatti fuggono via.

Come un fumo denso quando esce da un abbaino schiuso. Rimane solo la luce che si posa sulla polvere nell’aria e sulle cose nella stanza; prendo la sveglia sul comodino.

Segna qualche minuto prima delle sette.

La bambina ha aperto gli occhi; non piange.

Giuliano è rientrato in cucina porta con sé l’anfora colma.

Prendendo Lucilla in braccio; penso che questa bambina è già grande, non piange se non per sbaglio; è coraggiosa, affettuosa e riempie le nostre vite.

Il mese di maggio del 1959 fu particolarmente sereno; il tempo in Sardegna passava con lo stesso incedere delle navi passeggeri che solcano l’acqua con il loro peso e vanno avanti sulla loro rotta senza spostarsi di un grado.

Abitavamo ad Abbasanta da diversi anni e la bambina aveva passato l’anno, nulla avrebbe fatto immaginare che il male che era alle porte.

Capitolo 4

I film vanno avanti come treni, capisci? Come treni nella notte 

Francois Truffaut  

Alla metà di giugno si seppe del focolaio di poliomelite in corso a Cagliari.

Il capoluogo della regione dista un centinaio di chilometri dalla cittadina in cui abitavamo.

Fu una delle poche volte in cui Giuliano davvero fu grave.

Io e Lucilla avremmo viaggiato in nave per lasciare l’isola, saremmo presto tornate in continente.

Nel mentre ordinavo la biancheria per il baule, mi fermai e mi affacciai alla finestra della stanza.

Il pozzo in pietra, il cancelletto della proprietà, la vegetazione, tutto mi era famigliare.

Di lì a poco probabilmente avrei intravisto in lontananza il ragazzo della frutta che veniva dal paese di Milis, il paese degli agrumeti.

Passava a vendere una volta a settimana e questa sarebbe stata la prima volta che avremmo rifiutato.

Durante i primissimi tempi dopo che ci eravamo trasferiti, non avevamo frutta.

Alla bottega ad Abbasanta, non ne vendevano, perché non c’era mai stata domanda fino a quel momento.

D’altra parte ognuno ne aveva una sua disponibilità personale nel giardino della casa oppure ne aveva dell’appezzamento che gestiva. 

La bottega è a quaranta metri dalla porta di casa, credo che all’incirca sia la stessa distanza a cui vedo ora approssimarsi il ragazzo da Milis. 

Ho preso abitudine a misurare la distanza dal punto in cui mi trovo rispetto agli altri, se si trovano abbastanza lontani. Dev’essere una cosa che mi è venuta d’abitudine con la caccia.

Non che io abbia mai sparato a parte quella volta, è stato accidentalmente, per sbaglio, durante la guerra, devo aver tolto la sicura per errore.

Se c’è una cosa che ho imparato durante la guerra è che quando c’è una pistola, quando uno maneggia una pistola manca poco prima dello sparo.

E poi a quanto siano assordanti i colpi di pistola, il rumore resta nella carne e trafigge le ossa e resta lì dentro per molto tempo, distruggendo la mente a volte, specie nella solitudine.

Fa vibrare la più piccola parte di sé stessi per un tempo illimitato, eterno; dire -a lungo- non è abbastanza perché non so spiegarlo.

Il temporale che si sta avvicinando è uno dei pochi che io abbia mai visto qui in Sardegna, sembra venire per salutare me.

E per allievare Giuliano della nube che ha scurito il suo volto dopo che ha saputo dell’epidemia.

La notizia del focolaio di poliomelite in Cagliari lo ha turbato davvero molto, non riesce a posare un solo attimo.

Sembra che l’unica cosa che lo calmi per il tempo di uno sguardo, sia la cucina.

Quando prepara quel poco di pomarola per condire una porzione di pasta sembra riuscire a fare almeno un sospiro di sollievo sano.

Penso che abbia ragione.

Per l’istinto di protezione verso la bambina, e perché è una malattia che non perdona, non perdona distrazione alcuna, non perdona quando colpisce e non perdona quando se ne va. 

Lucilla è intenta ad aiutarmi a preparare le nostre valigie, più che altro è attratta dalla biancheria nel baule. 

Come darle torto? Sono solita mettere i sacchettini di fiori di lavanda tra le lenzuola piegate per allontanare eventuali tarme o altri insetti rosicatori, anche se devo dire il profumo in sé del fiore non dispiace, sotto sotto mi dà l’impressione che tutto è finito, che tutto è lontano, che la notte sarà serena e che nulla di male deve accadere.

Poi quando lo annuso penso alle api, piccole, instancabili, lavoratrici e sempre sicure di quello che è il loro compito, mi sembra che quegli impollinatori non perdano mai il senno, non si distraggono in pensieri di vario genere che a volte riguardano il pranzo, fin troppe volte la mamma, il babbo, la mamma Olga che sono in continente, la guerra certo, quella mi rincresce sempre nella coscienza come un’erba cattiva, insieme a tutti i suoi ricordi, così come il pensiero della “polio” come la chiamiamo amichevolmente senza scherzarci sopra un solo momento e poi naturalmente, cerco di convincermi che sia naturale e che non sarà poi così grave, il fatto di separarmi da Giuliano intendo, non sarà poi così grave, si tratta di poco tempo prima che lui raggiunga il continente.

D’altra parte siamo sposati da sei anni e lo spazio di tempo più lungo è coperto da una giornata, dalla mattina alla sera, ma neanche perché non è mai tornato a buio, e solo nei giorni di caccia alla Tanca. 

Il temporale fa sentire i suoi tuoni in lontananza.

Se non mi sbrigo a chiudere l’imposta rischio di far piovere in stanza.

Il ragazzo di Melis si sta affrettando a tornarsene da dove è venuto, ha levato un braccio fin sopra la testa e ha ripetuto il segnale che Giuliano gli ha fatto, da incima al cancelletto della casa, un gesto lungo da sinistra a destra, una mezza luna,  Giuliano lo ha aspettato sulla porta, poi si è inoltrato fino al cancello e ha iniziato con quel saluto. Lui da lontano ha visto, ha salutato di rimando e ha girato la prora, se è svelto riuscirà a riparare alla prima casa sulla strada per Melis prima che inizi a piovere.  

Capitolo 5

La filosofia e la perfezione della filosofia non sono possibili solo in questo mondo, ma anche in queste città, le città imperfette.

Al-farabi, La filosofia politica nell’Islam medievale, Leo Strauss

Parecchie volte mi son trovata a pensare e a ripensare la stessa identica cosa, in altra maniera, in diversi modi, con diverse aperture, finendo in realtà sempre nello stesso punto del ragionamento, arrivando sempre alla stessa conclusione a cui non avrei mai voluto più arrivare e così ho pensato anche per un momento che quella doveva essere la verità, mi son scoperta a credere che sia la verità, anche se ormai a questa altezza della mia vita mi pare una cosa così lontana da non poterci più ragionare, e allora mi trovo di fronte a un bivio, prendere per vera questa dannata filastrocca a cui arrivo oppure dare la verità per perduta.

Lucilla cammina avanti e indietro per il corridoio del treno con uno specchietto tra le mani, penso che se per caso dovesse inciampare, allora non si potrebbe riparare colle mani.

Ma non vuole posare quello specchietto, che ha preso tra le cose della mia borsetta.

È stata mia suocera a darmelo dice che potrei permettermi certi vezzi, come ad esempio il rossetto, se solo me ne importasse qualcosa.

Olga è seduta di fronte a me nel vagone, è caldo, l’aria entra dalla finestra a vasistas ma non scende oltre l’altezza della fronte.

Il vestito di Lucilla era color crema, come il fazzoletto che Olga tiene tra le mani.

È venuta qui in Sardegna da Carrara perché è in pensione e ora accompagna me e Lucilla indietro, in continente, per scappare dalla polio.

Il treno è a vapore; la polvere della ciminiera si posa dappertutto, una fuliggine finissima la cui prepotenza è quella di non poter essere toccata a meno di non provocare macchie nere; sui vestiti, sulle sedute, sulla borsa, sulla fronte.

Appena si posa ha un che di incomprensibilmente attraente, ma è una dannazione, non lascia scampo, dovremmo lavare tutto alla fine del viaggio.

Ci sarà il tragitto per arrivare al traghetto, poi l’imbarco, bisognerà aspettare di salpare e poi la traversata.

Lucilla sembra non preoccuparsene, ha voglia di giocare di correre, con quello specchietto in mano sembra divertirsi tra le nuvole del paradiso.

La sento ridere e tutto mi sembra sul punto di prendere vita.

Come quando il padre eterno tocca Adamo nella Cappella Sistina, deve esserci stato un brivido, un trasbordo di energia, qualcosa di più antico del mondo, quel momento è quando Lucilla ride.

Ora mi sembra che assomigli a una gattina siamese, sporca di fuliggine.

Mi chiedo se quel vestito tornerà mai lindo oppure no.

È stato fatto con un vecchio scampolo, vecchio come il diavolo.

Si tratta di un resto di una stoffa particolare, la stoffa del paracadute militare che Fausto in un giorno di sole del quarantacinque portò a casa.

Fausto è maggiore di me di sei anni, e quella questione su cui mi arrovello riguarda lui, direttamente e indirettamente e naturalmente un fatto accaduto durante la guerra.

Una cosa della guerra, così profondamente dentro la guerra che non appartiene più al presente se non nei nostri orribili ricordi.

Fausto è sulla pensilina a poca distanza dalla porta di uscita, deve averci viste perché vedo la sua testa bionda avvicinarsi facendosi spazio tra la gente.

È stato un viaggio lungo che ha stancato anche la bambina.

Si è addormentata, in braccio a me appena saliti sul treno che abbiamo preso dopo essere scese dal traghetto su cui siamo salite ad Olbia.

La Sardegna sembra già così lontana.

Giuliano arriverà tra una decina di giorni, Fausto si avvicina, sta superando un paio di giovani signore che attendono di salutare qualcuno già salito sul treno e che probabilmente tra poco si affaccerà al finestrino, poi passa vicino a un tizio che sta fermo sulla pensilina con un bagaglio tra le gambe, quel tizio guarda alternativamente il suo orologio da polso e l’orologio appeso alla pensilina.

Olga è di fronte a me a me in piedi sul marciapiede del binario, ha scaricato lei i nostri bagagli.

Si sta guardando intorno per vedere se scorge Fausto, probabilmente considera tra sé il fatto che, come da appuntamento, il fratello maggiore di sua nuora dovrebbe essere già qui a occhio e croce. 

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Articolo concluso in attesa di proposta editoriale.

di Elettra Nicodemi

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