Inside Fashion

Un Totem alla sartoria Da Quasimodo

In questo articolo parlo di Fashion e Cultura, inizio con un mio racconto di fantasia, la storia di un sarto alle prese con quello che potremmo chiamare un rompicapo, dopodiché parlerò di moda e di fashion cercherò, lo prometto, di mettervi comodi tra moda, fashion, tradizioni e fruitori di tutto questo, con una imprescindibile cronaca di come andavano le cose un tempo per capire e contestualizzare l’arte di vestire.

Racconto di fantasia

Un Totem alla sartoria Da Quasimodo è un racconto di Elettra Nicodemi.

Un sarto alle prese con un rompicapo e con un libro di antropologia lascia indietro gli ordini dei suoi affezionati clienti, ma a buon diritto.

Ogni riferimento a fatti, persone o cose realmente esistenti o esistite è puramente casuale.

La Redazione

Il sarto Quasimodo Genovesi andava dal barbiere regolarmente ogni quindici giorni.

Da circa vent’anni prima di aprire il negozio di sartoria Da Quasimodo in via Venchi numero ventiquattro, ogni quindici giorni alle ore sette e venti del mattino, capitava di fronte al negozio da barbiere di Sandrino Alemanni.

Il fatto che la periodicità fosse basata su un numero dispari, non alterava affatto l’accordo tra il sarto Quasimodo e il barbiere Sandrino.

Quasimodo alle sette e quindici, nel momento successivo a quello in cui aveva svoltato l’angolo della strada per immettersi in via Venchi, vedeva dall’altro lato del marciapiede Sandrino, chino, intento ad alzare il piede della saracinesca.

In capo alle sette e venti -come si diceva- ogni quindici giorni, Quasimodo sedeva sulla poltrona da barbiere che preferiva, quella che dava le spalle alla porta di ingresso.

Aghi da cucito e peli della sua barba, tenere in ordine gli uni per Quasimodo, in maniera del tutto inconscia -se non per la riflessione passeggerà che gli balenò per la mente un giorno in cui stava seduto sulla sua poltrona preferita, nell’attimo in cui incrociava il suo volto nello specchio- tenere a posto gli uni, significava tenere a posto gli altri.

Quella volta in cui per la prima e unica volta gli passò per la mente quella correlazione, era stato nel giugno del 1985.

Tornando a noi, era ora di chiudere, le luci erano già spente, il cartellino girato, il libro posato.

Quasimodo avvertì la sensazione di essere sul punto, nel mentre varcò la porta, di separarsi da una parte del suo corpo; e nel girare la chiave nella toppa, fu sicuro si trattasse del libro, perciò chiuse con maggior gusto, così che nessuno glielo rubasse.

Afferrando la saracinesca ricapitolò, a parte la pila dei rammendi della giornata, aveva un paio di spose da vestire, altrettanti sposi e il completo per il signor Martini che doveva essere pronto per marzo.

Per il giorno del suo compleanno il signor Martini avrebbe partecipato ad una festa e voleva qualcosa di nuovo da mettere, perché con quella gobba che si ritrovava, non voleva “dispiacer nell’occhio”, in altre parole teneva a fare bella figura tra i nipoti e specialmente tra le nipoti.

Patrizio Martini dunque gli aveva ordinato un abito che, parola di sarto, sarebbe stato un piacere indossare.

Quasimodo sapeva come scontare almeno cinque centimetri alla gobba dell’anziano cliente.

Inoltre era molto contento che i suggerimenti sul colore e sul tessuto dell’abito erano stati approvati.

Le concessioni del signor Martini, permettevano a Quasimodo di realizzare la giacca che aveva immaginato per lui, il che lo rendeva naturalmente molto felice non solo perché poteva realizzare quello che aveva in mente, ma anche perché dimenticandosi della gobba, con la giacca giusta, il signor Martini avrebbe avuto la bella festa che desiderava.

A ben pensarci Quasimodo Genovesi avrebbe potuto fare il conto a ritroso di quindicina in quindicina, per ricordare che era il quattordici del mese di giugno del 1985, tra un quarto alle otto e le sette e venti del mattino.

Alle otto meno un quarto Quasimodo salutava il barbiere Alemanni e metteva piede fuori dal negozio per attraversare il marciapiede, poi la strada e dunque recarsi al suo studio, la Sartoria Da Quasimodo, ad appena cento passi di distanza.

Quel giorno Quasimodo sollevò la saracinesca, aprì la porta a vetri, afferrò il cartellino dondolante con su scritto Chiuso e lo girò dalla parte buona.

Ora diceva “Aperto”, mentre l’orologio a cucù indicava la solita ora e Quasimodo accendeva la luce.

Quel giorno Quasimodo sedette dietro il bancone e non alzò gli occhi dal libro che stava leggendo nemmeno per un secondo.

Durante la giornata erano entrati e usciti vari clienti, come ebbe modo di notare soffermando lo sguardo sul bancone poco prima di uscire a fine giornata.

Dopo aver girato il cartellino attaccato alla porta si era reso conto di aver ancora, saldamente stretto nella mano sinistra, il libro che fino a poco prima stava leggendo.

Quindi era tornato al bancone per appoggiarlo e allora si era reso conto della catasta di panni da aggiustare.

Sullo spunzone porta foglietti le consegne per ognuno di quegli abiti, il nome dei proprietari e un recapito telefonico.

Si ricordò dell’invito di uno, a mangiare una fetta di crostata da lui, a cui aveva risposto – Be’ si certo, certamente- e a cui aveva aggiunto -grazie molte- come faceva di solito.

A tutti quel giorno Quasimodo aveva adattato la decina di paia di frasi che aveva imparato a dire in trentacinque anni di mestiere e probabilmente nessuno si era accorto che quello era un giorno diverso, a parte, gli venne il dubbio, per il tizio che gli aveva detto della crostata.

La prossima volta avrebbe guardato quel tizio in volto, certo solo per riconoscerne la fisionomia, per individuarlo anche senza sentirlo parlare; utile, qualora quello si fosse trovato nel suo negozio; nel caso in cui ci fosse la fila al bancone, pensava Quasimodo, avrebbe potuto salutarlo di lontano, con un cenno.

Il signor Martini aveva voluto aggiungere anche i pantaloni alla giacca, Quasimodo gli avrebbe chiesto di nuovo se era sicuro della commissione, ma in fondo lui stesso pensava che un completo giacca e pantalone era l’ideale.

Abbinare un pantalone qualsiasi sul verde di quella giacca, sarebbe stato facilissimo, ma per un giorno importante, allora niente di meglio del suo stesso verde.

Quasimodo era sul punto di fare il regalo più grande al signor Martini, lasciare che si dimenticasse del suo più grande difetto.

Ma era gennaio, c’era ancora un mese buono per lavorarci.

Quel paio di spose avevano scelto dal catalogo, e per gli sposi sarebbe stato sufficiente prendere bene le misure, cosa che Quasimodo rimandava di settimana in settimana, infatti il sarto sapeva che gli uomini a poca distanza dal giorno delle nozze, ingrassano o deperiscono vistosamente, bisognava dunque attendere la primavera per sapere di che razza fossero i suoi sposi e le loro pence.

Ragionando e riflettendo sulle commissioni Quasimodo aveva nel frattempo chiuso bene la saracinesca, aveva calzato i guanti, accostato la sciarpa alla bocca, e si era avviato dalla parte opposta a quella da cui era arrivato in negozio quella mattina; svoltando l’angolo di via Venchi, Quasimodo lasciò dietro di sé anche un altro pensiero, il peso di non essere ancora riuscito a trovare l’idea buona per il vestito da Carnevale del Massimo, suo nipote, un frugoletto di cinque anni appena, con tutta l’aria di uno che avrebbe presto avuto un fisico da colosso.

Era nell’indole del sarto non riuscire nemmeno ad infilare un ago, qualora il pensiero di un abito gli si rivoltasse nella mente.

Il Massimo aveva un concorso per la scuola materna.

Durante la festa di Carnevale della scuola sarebbe stato premiato il vestito più bello e lui, Quasimodo Genovesi voleva un bel ricordo per Massimo; già immaginava la premiazione, Massimo sarebbe salito sul gradino più alto quello del primo classificato, qualcuno avrebbe lanciato dei coriandoli nell’aria e uno, magari lui stesso, avrebbe scattato una foto da incorniciare, nel mentre che delle trombette suonavano a festa, Evviva il vincitore, evviva Massimo, Buon Carnevale!.

Il tema della festa in maschera era l’Europa e il libro che Quasimodo non riusciva a mollare durante le giornate di lavoro, quello che gli costava pile di rammendi in arretrato e che gli sarebbe costato clienti in ritardo se non si fosse deciso a posarlo, era un volume rilegato in pelle che teneva nella piccola libreria del negozio di sartoria.

Lo aveva letto in passato, raccoglieva gli usi e costumi di molti popoli, la dicitura sulla copertina diceva Antropologia Culturale e Quasimodo era sicuro che lì sarebbe riuscito a trovare l’idea buona per il vestito di Massimo.

         Passarono tre volte quindici giorni ed era il giorno della festa alla sartoria e il rinfresco stava andando alla grande; era la prima volta che il sarto Quasimodo ne teneva uno, a parte quello dato per l’inaugurazione del negozio una trentina d’anni prima.

Ognuno dei suoi clienti aveva portato qualcosa dunque era stato di poco disturbo organizzarlo, ossia Quasimodo non aveva dovuto caricarsi oltremodo né di bibite né di vassoi per rifocillare gli avventori.

La signora del primo piano della bella palazzina di via Venchi su cui svettava l’insegna “Da Quasimodo” si era offerta, sapendo del rinfresco dalla portinaia, di prestare il samovar che ora prendeva una buona parte del banco da cucito, adattato per l’occasione con una tovaglia blu.

Gli invitati, i clienti della sartoria, gradivano mangiucchiando nei piattini; la conversazione fu avviata da una bella signora che indossava stivali con tacco alto,     

-Ho saputo che hai vinto il primo premio-,

-Non io, Massimo lo ha vinto

Il tizio che aveva portato la crostata intervenne,

-Be’ ma il vestito lo hai fatto tu-

La risposta arrivò da un’altra signora, Marlene, una che portava a Quasimodo le sue giacche per cambiare i bottoni, la signora si godeva una birra bionda a piccoli sorsi.

-Nell’indossare c’è la maggior parte della libertà del vestito

Il sarto era al centro dell’attenzione quando il tizio che aveva portato la Quiche Lorraine, un uomo dinoccolato che mal sopportava che le sue giacche fossero senza un rinforzo alle spalline disse:

-Io non lo avrei messo quel vestito, mi parrebbe di fare la figura del salame

-Poveretto!

Era stata la signora vestita di bianco a intervenire con quel “Poveretto!”, come faceva ogni volta che entrando in negozio, trovava Quasimodo intento a cucire.

-Be’ il piccolo ha cinque anni?

Domandò il tizio della crostata, indosso aveva una camicia a quadri.

-Sei, per l’esattezza

Quasimodo non si era lasciato sfuggire l’occasione per una precisazione.

-Appena compiuti, appena compiuti?

A domandarlo una signora che teneva sul naso un paio di occhiali a V, il cui volto si rasserenava dalla sua solita espressione severa, solo per lo spazio di tempo in cui era lei stessa a parlare; Quasimodo non badò dunque al fatto che la faccia della signora si era di già inasprita e che perciò avrebbe risposto a un muro, a qualcuno che aveva tutta l’aria di starsene abbarbicata oltre un fossato, anzi disse affabile,

-Proprio così, il mese scorso

-A proposito, dov’è il festeggiato?

-Allora il prossimo anno va a scuola?

-I genitori hanno preferito non mandarlo un anno avanti

Gli invitati parlottavano fra loro e Quasimodo aggiunse,

-La festa è per me!

-Be’ dico bene io

-Poveretto!

-E per cosa, per cosa festeggi dunque?

-Io non so se mi sarei preso la briga di dare una festa in negozio, con il fatto che dopo uno ha da rassettare.

-Un momento! Ho qui il foglietto, ve lo leggo

Quasimodo estrasse dalla tasca della giacchetta un foglio ripiegato, lo spiegò e lesse:

“Conferiamo il primo premio a Genovesi”.

Quasimodo si dovette schiarire la voce più volte, si trattava delle parole pronunciate durante la cerimonia di premiazione dello scorso Martedì Grasso che lui diligentemente aveva segnato su un foglietto prima di scattare la foto al podio.

 per l’originalità del costume e per l’intuizione non banale del totem come allegoria dell’Europa,  

Il fatto che avevano dato il premio al piccolo Massimo faceva venire i singhiozzi a Quasimodo anche a distanza di giorni.

L’Europa infatti oggi è crogiuolo di culture e per la quale è vanto tenere aperte le frontiere, come le braccia del totem, e di fondarsi delle sue parti tra loro unite e distinte come il corpo del totem.

Inoltre così come il totem è intimamente connesso ai capi tribù, l’Europa è intimamente connessa agli stati ed oggetto di particolare rispetto da parte dei cittadini, così come il totem lo è tra gli indigeni”.

Quasimodo tra il riporre il pezzo di carta e il nascondere le lacrime in un ampio fazzoletto che si era cavato di tasca, fece passare il momento di silenzio che era sceso sugli invitati, come se un angelo si fosse posato per un momento sulla sartoria Da Quasimodo.

Le congratulazioni si sprecarono, ognuno volle stringere le mani al sarto, qualcuno approfittò per baciarlo e accarezzarlo, tutti adoravano Quasimodo, tant’è che ognuno lasciò una dedica sul libro che Quasimodo porgeva loro e in molti promisero di ordinargli un abito per la primavera, l’entusiasmo era, si può dire, alle stelle.


Il costume e la moda

Nel corso della storia della civiltà occidentale possiamo vedere alcune feste che permangono al di là di rivoluzioni o cambi di rotta, esistono oltre alla politica perché fanno parte della cultura della gente o meglio fanno parte dei vecchi bisogni dell’uomo.

In alcuni periodi queste tradizioni sono messe da parte o relegate alle nicchie, in altri secoli prendono forza e danno manifestazione di sé stesse con grande vivacità, in ogni caso come ad esempio nel Carnevale, nell’Easter Bonnet, nella festa di Halloween, l’uso dell’abito come linguaggio è evidente e, seppur ad esempio gli abiti cambino di anno in anno, si possono tracciare tendenze di massima specialmente a seconda del territorio e quindi della cultura che sopisce nel terreno e germoglia di anno in anno nel ripetere delle tradizioni e dell’amore verso i bambini ai quali dobbiamo insegnare prima di tutto a essere umani, dobbiamo insegnarlo loro persino prima che a essere bravi scolari, prima che bravi videogiocatori, bravi musicisti, bravi sarti, bravi recitatori di poesie, prima che a essere bravi figlioli sempre che una cosa preceda l’altra; dobbiamo insegnare loro a voler bene a se stessi e al prossimo, a individuare quale emozione provano di fronte a un evento, cosa hanno capito e quali sono le conseguenze che immaginano e dobbiamo insegnare l’empatia.

Vestire è un linguaggio

Imparare a provare la stessa emozione che prova l’altro quella è la vera chiave di volta che permetterà alla nostra cultura di continuare, altrimenti finirà miseramente alla polvere da dove è venuta, nel nulla.

Perché per capire tanti libri, per capire le altre persone, per capire i film, per capire la musica, per capire un quadro, un vestito o in generale un’opera d’arte bisogna prima essere empatici poi affettuosi, allora tutto sarà molto più facile nel cammino di essere uomini liberi.

Capire il Carnevale, Halloween, l’Easter Bonnet oggi

Il Carnevale dicevo è una festa che ha origine nei bisogni più remoti dell’uomo, ovvero nel bisogno di identificarsi con qualchedun altro, di nascondere le proprie vesti quotidiane a favore di altre, a seconda del bisogno più comode o più ricche o più povere.

Halloween

I travestimenti per Halloween da una quindicina d’anni ormai comuni anche in Italia sia tra adulti che tra bambini, sono tipici della cultura anglosassone.

Considerando il lato ancestrale della cosa, hanno l’utilità di esorcizzare delle paure ataviche legate all’inverno, all’abbreviarsi severo del dì rispetto alla notte quindi alla prevalenza delle ore di buio sulle ore di giorno, cosa che si lega a una tradizione magico-mistica pagana che considera una possibile commistione del mondo degli spiriti e una possibile commistione degli spiriti nel mondo dei viventi.

Questi spiriti tornerebbero sulla terra durante la notte di Halloween ovvero tra il 31 ottobre e il 1° novembre di ogni anno.

Spaventare gli spiriti con volti terrificanti, realizzati ad esempio intagliando zucche e rendendoli visibili al buio, inserendovi dentro una luce, così come travestirsi da orribili entità, servirebbe per ricacciare gli incorporei nell’aldilà così come gli innocui ma una volta terribili scherzetti utili a far cacciare urla alle vittime potevano essere di aiuto nello spaventare poltergeist o cose simili.

Ritengo che oggi come oggi, la violenza a cui la gente è sottoposta quotidianamente supera lo scherzo, che io sappia ad esempio sul social network Twitter si può chiedere al sistema di non mostrare immagini che potrebbero urtare la propria sensibilità e perciò se stiamo seguendo il post di qualcuno che a sua volta è commentato da qualcun altro il quale posta delle immagini violente, il sistema oscura l’immagine e propone una scritta che all’incirca suona:.

“Questa immagine non ti è visibile perché contiene materiale che hai scelto di non vedere”.

Credo che questa sia l’unico caso in cui mi sento tutelata, mentre navigo, secondo quanto ho chiesto non mi vengono mostrate alcune cose e mi viene segnalato, per il resto per quanto riguarda la televisione specialmente, per me, personalmente è come vivere Halloween tutti i giorni, anche stando tappata in casa a luci spente, l’orrore viene a suonarti alla porta e ignorarlo è impossibile a meno di non trovarsi uova spiaccicate sui vetri del portone, fiori in boccio recisi in cortile o chissà che altra diavoleria, insomma è impossibile non finirci in mezzo, non c’è zucca illuminata o lucchetto a doppia mandata che tenga.

Insomma secondo me Halloween oggi fa meno paura, specialmente ai bambini, ma soprattutto ai giovani come me.

Infatti potrebbe parere, considerando come vera la premessa della festività, che ci siano almeno più di una manciata di spiriti (maligni) che hanno preferito rimanere di qua; che non sono tornati di là nell’aldilà.

Mi sto organizzando come acciuffa fantasmi, però nel frattempo mi piacerebbe accennare qualcosa anche sulla terza festività a cui accenniamo in questo pezzo dell’articolo, ovvero la Pasqua, e alla sua adorabile tradizione cosiddetta Easter Bonnet.

Easter Bonnet

Si tratta della moda prettamente femminile, scoppiata negli anni ’50 dello scorso secolo, di indossare cappellini a tema pasquale, quindi aggiustati con uova, pulcini, coniglietti oppure fiori, qualsiasi cosa significhi Pasqua, ovvero qualsiasi cosa voglia dire rinascita.

La moda scoppio nei ’50, ma l’apice del cappellino pasquale probabilmente è stato dopo la Seconda Guerra Mondiale, nei tardi ’40, ed ovviamente il cinema è il trampolino per unire il gusto delle masse, insomma è il film Easter Parade con Fred Astaire e Judy Garland che dà, si potrebbe dire, una grossa mano alla moda dei cappellini.

La tradizione ha basi ben più antiche, in generale indossare qualcosa, qualsiasi cosa di nuovo in occasione della Pasqua è una cosa che in qualche modo esistite da sempre, perché il significato traslato della rinascita, si lega al nuovo e dunque anche al vestito nuovo possibilmente di nuova fattura.

Nei secoli scorsi come oggi, dopo il periodo di Quaresima, in cui si è tenuti per culto a evitare gli eccessi e specialmente a mangiare moderatamente per quaranta giorni, il giorno di Pasqua è una sorta di liberazione, e ancora una volta il linguaggio del vestire si lega a quello emotivo, la gioia della rinascita si manifesta dunque nel modo di presentarsi e di agghindarsi.

Ma nello specifico sul cappellino pasquale, si segnala un inizio ben definito, nel tempo e nello spazio, ovvero nel 1870 a New York.

Considerando il boom economico del 1870 negli Stati Uniti, ironicamente a quell’epoca costruivano verticalmente proprio chiunque e dappertutto, anche sulla testa delle signore.

Per quanto riguarda il fashion in generale, penso a Don Hewes di Easter Bonnet e a Hannah e a Nadine, anche se tra loro si parlava di danza, cambia poco perché sempre di un linguaggio estetico stiamo parlando.

Penso al fraintendimento, Don Hewes e Hannah ci hanno messo un po’ a capirlo, allora cerchiamo di prendere insegnamento, per esempio una prossima volta in cui indossiamo un Easter Bonnet, bisogna cercare di essere il meglio di sé stessi, non una imitazione, specialmente se si vuol evitare di suonare falsi, o peggio, vuoti.

Carnevale

La grande tradizione del Carnevale che ancora più anticamente prende le mosse dai riti carnascialeschi che a loro volta derivano da altro.

Inoltre il partecipare al Carnevale è un modo per mettersi in gioco per ricordarsi della brevità della vita, così come della casualità della nostra esistenza, un modo per non riconoscersi allo specchio, ma ritrovarsi nel ricordo.

Storia di alcuni abiti

La storia delle maschere è molto vasta, di solito viene affrontata regione per regione, infatti ogni regione italiana ha dei personaggi caratteristici, sebbene poi i costumi più famosi siano adottati anche nelle altre regioni.

Pulcinella ad esempio, simbolo del carnevale, è noto ovunque, le sue origini siano campane, oppure il lombardo Arlecchino ad esempio, il signore vestito di molti colori ha addirittura un modo di dire tutto suo e è noto in tutta Italia.

I personaggi delle maschere italiane derivano tout court talvolta dal teatro dei burattini, altre dalla Commedia dell’arte come nel caso di Pulcinella, da tradizioni arcaiche, da prese in giro per così dire private, dunque da ritratti caricaturali, come il sopracitato Arlecchino che è personaggio di un certo Sacaramachai un uomo che aveva d’uso di vestirsi con tanti colori diversi, ma ad esempio in certi casi fa capolino una satira sociale, tra le maschere di questo tipo, ricordiamo il marchigiano Vulon che è la caricatura del gradasso, prende nome dal principio degli editti napoleonici che iniziavano promulgando le leggi del Bonaparte, con la frase in francese Nous voulons (Noi vogliamo).

I vestiti anche in questo caso dunque, nel caso del Carnevale, rappresentano la persona, rappresentano il carattere di chi lo indossa e dunque la psiche del personaggio, oltreché lo stato di benessere.

Ricordate ad esempio la pièce teatrale apparsa per la prima volta a Parigi nel 1668?.

Capire il Fashion come linguaggio sociale

Arpagone insegna?

Arpagone, l’avaro di Molière, nel primo atto rimprovera i figli Elisa e Cleone perché come sempre sono vestiti troppo sfarzosamente, il lusso dei loro vestiti infatti stando alla sua parte, non solo dilapida il suo patrimonio, ma anche attira ladri in casa sua, sarebbe dunque un incentivo per i malintenzionati.

vestito come un principe

Avete mai pensato al termine “rivestire”? Rivestire può significare con un sinonimo foderare oppure assumere una carica, d’altra parte è vero che l’abito non fa il monaco, ma da sempre la forma fa parte della sostanza, da ciò conseguono gli abiti di gala tanto quanto quelli da lavoro, a volte tradizionali e simbolici, come ad esempio il camice bianco identificava il medico tra gli infermieri.

ispirare Fiducia

Anche la cura dell’immagine e della persona per tutti coloro che lavorano nel settore terziario è molto importante, infatti un’immagine ordinata e pulita, tanto quanto un volto sereno, nella maggioranza dei casi funzionano come un cartello con su scritto, puoi avvicinarti/ posso aiutarti/ manterrò la tua fiducia.

ESSERE riconoscibili

L’abito o in particolare alcuni elementi di vestiario, possono essere necessari per distinguersi, ma anche per farsi riconoscere, per dare una appartenenza e funzionano da guida.

Per esempio, avete già sentito parlare del cappello di Napoleone Bonaparte, condottiero francese che oltre alle sue larghe conquiste e sconfitte, segnò il passaggio dello stato a un impianto di tipo statalista e burocratico, cosiddetto le petit chapeau?.


Come precedentemente indicato, nel racconto di fantasia Un totem alla sartoria Da Quasimodo ogni riferimento a fatti, persone o cose realmente esistenti o esistite è puramente casuale.

L’immagine fotografica di copertina ha i diritti riservati.

Articolo in aggiornamento.

di Elettra Nicodemi

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