
Finalmente dopo anni di ricerche sono riuscito a realizzare il mio sogno e il desiderio che mi ero prefissato, fin dalla mia tenera età, il ritrovamento delle tombe dei miei genitori, deceduti entrambi in Africa: mia Madre ad Addis Abeba nel 1943 mio Padre in Kenya Nyeri nel 1945, prigioniero degli Inglesi.
Fu impossibile rintracciare la tomba di mia Madre, in quanto dopo la disfatta degli Italiani, i locali avevano distrutto tutto in particolare il Cimitero di “Gulale” ad Addis Abeba.
Per ricordo ho lasciato uno scritto, per tutte le mamme, come da fotografia allegata.
Più fortuna invece per mio Padre, che essendo prigioniero degli Inglesi venne deportato in Kenya, dove per volere del Duca D’Aosta è stato costruito il SACRARIO dove sono stati raccolti tutti i caduti Italiani e lo stesso Duca D’Aosta.
Mio Padre è sepolto nel Sacrario su detto.
Il sacrario a Nyeri in Kenya
Trascrivo la nota dei 700 caduti, raccolti nella Chiesa Sacrario per dare la possibilità, a chi lo desidera e se riscontra nell’elenco dei caduti il proprio congiunto, il Padre o un parente, ricevere una foto del Sacrario a ricordo di conoscenza di un eventuale congiunto qui custodito, per un riferimento a un ricordo non solo Storico ma anche affettivo può richiederla sarà mia cura farla recapitare, nel caso sarà gradita una Offerta Libera, il cui ricavato sarà Devoluto in Beneficenza e per la cura, e fiori che saranno deposti in ricordo di tutti i caduti.
Elenco dei caduti






La foto ricordo del sacrario riporterà la dedica della duchessa Anna di Savoia Aosta, Margherita e Cristina.
Per informazioni vi lascio il mio numero di telefono 0039 333 6138796
Per offerta PostePay 4023600931664066; Codice Fiscale BRTVNN35R26D612Q
Riporto qui la presentazione del presidente dell’Anrra Guido Costabile, edita nell’opuscolo dell’Associazione Nazionale Reduci e Rimpatriati d’Africa (Anrra)
Presentazione opuscolo dell’ Anrra
“L’associazione nazionale reduci e rimpatriati d’Africa, ANRRA, costituita nel 1961 con natura apolitica per statuto, persegue da quella data fini di assistenza orale e culturale nei confronti dei propri associati o simpatizzanti e di quanti sono per qualsiasi motivo legati a terre d’Africa un tempo nostre.
Di recente è stata insignita, per il suo operato, del riconoscimento di “Associazione di Promozione Sociale”; la sua attività infatti è rivolta non solo ai connazionali, ma anche alle popolazioni più legate all’Italia, quale, ad esempio, gli Eritrei che vivono sul nostro territorio nazionale, e ai rapporti con i loro rappresentanti.
Questo pregevole “Opuscolo” di Franco de’ Molinari è una testimonianza di tale attenzione protrattasi per anni sin dal nostro forzato abbandono territoriale che non ha, peraltro, interrotto, né tantomeno logorato, i rapporti di reciproca amicizia e stima fra le genti.
In questa ottica l’ANRRA, attraverso il suo periodico “Il Reduce d’Africa“, ha fatto e continua a far rivivere un passato che ci onora, anche se è stato volutamente ignorato in ambiente didattico.
I testimoni di quell’epoca sono in maggior parte scomparsi; spetta ora ai giovani cercare di saperne di più ed onorarne la memoria.
Questa meritevole testimonianza li aiuterà.“
Note sulle vicende belliche
Entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940.
Isolati dall’Italia, all’inizio del 1941 le forze inglesi superano quelle italiane con l’aiuto del Sud Africa e dell’India.
Nel gennaio del 1941 gli inglesi occupano la Somalia.
Il 25 febbraio occupano Mogadiscio, il 28 marzo occupano Harar, il 6 aprile occupano Addis Abeba.
Trattamento dei civili
Somalia e Eritrea collaborano con gli inglesi; l’ Etiopia è pericolosa e in particolare Adis Abeba finché gli inglesi epurano il ricordo del Negus; gli inglesi decidono il trattamento coatto dei civili in campi di concentramento -con solo bagaglio a mano-.
Con la ferrovia Adis-Abeba-Gibuti deportarono i civili fino all’altezza del fiume Aushc perché il ponte era stato fatto saltare.
Di qui con automezzi fino a Berbera, dove attendevano le navi per l’imbarco, carri bestiame tre giorni in carovane nel deserto per arrivare a Madera.
Le forze italiane, comandate dal Duca d’Aosta trincerate sull’Ambalagi resistettero dal 3 luglio per arrendersi poi dopo una dolorosa resistenza.
Le ultime resistenze cessarono il 27 settembre del 1941 e tutti i possedimenti italiani furono persi: Eritrea, Somalia, Etiopia.
Gli italiani che furono fatti prigionieri erano oltre 100mila uomini e circa 50mila civili; qui comincia l’odissea.
I campi di concentramento per gli italiani si trovavano ad Harar, a Dire Daua, a Madera, a Hargheisa.
Utilizzando la ferrovia Addis Abeba-Gibuti trasferirono o, sarebbe meglio dire, deportarono, donne, bambini e vecchi senza riguardo alcuno, costringendoli a abbandonare tutto a parte un solo bagaglio a mano.
La ferrovia era stata interrotta all’altezza del fiume Auasc dal crollo del ponte, fatto saltare dalle nostre truppe; la gente fu trasbordata su delle vecchie corriere italiane (le Citao Compagnia Italiana Trasporto Africa Orientale) poi di nuovo su vagoni bestiame.
Le prime famiglie che scesero furono fatte alloggiare in vecchie case Incis semidistrutte e furono le più fortunate, infatti le altre famiglie di italiani furono alloggiate in campi di concentramento.
Sia le une, le ex-Incis, sia i campi erano cintati con il filo spinato, con restrizioni di cibo, di vestiario, con precarie condizioni igieniche.
I campi continuavano a ricevere sfollati anche da altre città etiopi, aggravando la situazione generale per sovraffollamento.
Chi poteva dimostrare di avere mezzi propri e parenti o attività commerciali a Asmara o a Mogadiscio riusciva con qualche difficoltà ad allontanarsi da quei campi di sofferenza.
Gli altri dovevano rimanere passivamente in attesa dell’eventualità di chissà cosa: un trasferimento in altri campi di concentramento in colonie inglesi, come per esempio in India, Kenya o Sud Africa, oppure l’atteso rimpatrio?
Le peripezie attraversate dai residenti di Adis Abeba sono innumerevoli, seguono alcuni stralci delle vicende accadute a cittadini che avevano trovato rifugio a Adis Abeba o che erano stato trasferiti di autorità dagli inglesi, ma che erano risiedenti in altre località.
Per noi che eravamo ad Adis Abeba cominciò il calvario.
In un primo momento fummo trasferiti nelle baracche del Genio Civile perché ritenute sicure nei confronti delle continue rappresaglie da parte dei ribelli di Shifta.
Gli inglesi cominciarono subito l’occupazione con un comunicato che trascrivo:
“è necessaria l’evacuazione dei cittadini italiani ad Adis Abeba che negli ultimi cinque anni hanno reso indesiderabile la loro permanenza in Africa Orientale” e avanti di questo passo dando la lista dei partenti giorno per giorno.
Non tutti gli abissini erano contro gli italiani tanto che, come ricorda Luciana Zink, “Alla nostra partenza in treno da Adis Abeba uno stuolo di indigeni manifestò il proprio dispiacere augurandoci di tornare presto”.
Luciana Zink aggiungeva di aver appreso da altri connazionali che per le successive partenze gli inglesi avevano vietato ai locali di entrare nella stazione o comunque di manifestare pro italiani.
Come scrive Gastone Rossini, dopo l’occupazione britannica il Negus stesso accettò che numerosi italiani rimanessero ad Adis Abeba.
Sulle case ex-Incis
Luciana Zink racconta anche delle sopracitate case ex-Incis depredate e abbandonate dalle truppe di colore inglesi durante l’avanzata: “Le case ex-Incis erano in uno stato pietoso con suppellettili mancanti o semidistrutte.
La prima notte ricordo che dormii distesa su un tavolo, ebbi come materasso il mio cappotto; sognavo che delle noci mi premevano sul corpo, non erano altro che i bottoni del cappotto; al mattino ebbi un brutto risveglio constatai infatti che le reti metalliche erano infestate da pidocchi così numerosi da tentare di eliminarli col fuoco”.
Sul campo di concentramento a Dire Daua
Il particolare degli insetti è presente anche in altre testimonianze come riferisce in particolare sulle cimici nel campo di concentramento, anche Valentina Ceccarelli ricorda:
“A Dire Daua ci avevano stipato negli hangar dell’aereoporto; quei capannoni erano fatti in lamiera, ci riservavano quindi 35 gradi di giorno e 10 di notte.
I letti erano a castello, se posti, tre piani, per materasso una semplice tela di sacco, una coperta a testa.”
dalla testimonianza di Valentina Ceccarelli
“Cimici a battaglioni affiancati, grosse, rosse, affamate; mi procurai una candela per bruciarle, ma a dispetto dell’incessante caccia notturna, tutti avevano la pelle come se infestati da scarlattina o morbillo; che dire poi del cibo? In un paese dove cresceva il caffè a noi davano una brodaglia nera col sapore di fuliggine, pranzo e cena con pasta dei nostri depositi militari e carne locale, niente verdure, niente sughi, poco pane, niente frutta ed era il paese delle banane, dei manghi, della papaia; ne soffrivano i bambini che dalla Croce Rossa avevano una scatola di latte condensato la settimana; e l’acqua!
Un’ora al mattino, un filo d’acqua, ognuno riempiva borracce per bere e non restava che poche gocce per fingere di lavarsi”.
dalla testimonianza di Valentina Ceccarelli sul campo di concentramento inglese di Dire Daua
La testimonianza di Valentina Ceccarelli continua:
“I gabinetti erano lunghe fosse con tavole per piedi, gas mefitici e mosconi voraci che assalivano le parti nude; poi gli scorpioni, grossi come granchi che camminavano sotto un leggero strato di sabbia per assalire e pungere quanto si trovasse alla loro portata, sembrava quasi che fiutassero carne umana; ogni tanto alcuni rimpatriati venivano spostati a Madera, altro campo peggiore del primo, in pieno bassopiano desertico vicino alla costa”.
Sul campo di concentramento a Madera
Su Madera riporto un’altra testimonianza di Nella Teò Zulfarino:
“Partimmo dal campo alloggio di Adis Abeba l’8 febbraio 1942 scortati dagli inglesi fino alla stazione ferroviaria.
Un giorno intero di treno in carri da bestiame e poi tre giorni su camionette tra polvere e vento in zone desertiche per arrivare a Madera.
Descrivere quel campo è semplicemente allucinante, diviso com’era in quattro settori, per militari inglesi, militari italiani, italiani prigionieri, civili italiani evacuati, zona donne e bambini.
Sotto un sole implacabile, l’esistenza aveva un solo implacabile imperativo: sopravvivere– la testimonianza di Nella Teò Zulfarino continua- e ciò fu possibile per molti anche per l’aiuto fornitoci dai nostri connazionali, militari e civili, forti di una maggior esperienza di arrangiarsi e sopravvivere”.
la testimonianza di Olga Olsoufieff:
“C’è troppo sudiciume nel campo, mosche, puzzo, gabinetti scoperti esposti al sole ed a intemperie, consistenti in una lunga fila di sedili senza alcuna privacy.
Ma del resto la vita al campo era senza senso di decenza e di ritegno.”
testimonianza di Olga Olsoufieff sul campo di concentramento inglese di Madera
In assenza di una valida assistenza medico-sanitaria la maggior sofferenza fu quella patita dai bambini.
Scrive Massimo Zamorani:
“Molti bambini non ce la fecero, non riuscirono a resistere; morirono di difterite, tifo, dissenteria, malaria; la mortalità tra i bambini inferiori ai tre anni fu molto elevata, ma sono dati statistici che nessuno si è mai preoccupato di raccogliere”.
Sul campo di concentramento di Dire Daua
Ricorda ancora Massimo Zamorani:
“A Dire Daua il campo di concentramento era nell’aeroporto militare, capitò che si ammutinassero i soldati di guardia che erano senegalesi comandati da ufficiali francesi Degaullist … allora mandarono un reparto coloniale di Kykuya (soldati nativi del Kenya).
Ci fu un combattimento che durò due ore.
Da una parte i senegalesi, dall’altra i Kykuya e in mezzo i prigionieri italiani, donne, bambini e vecchietti tutti distesi a terra come una pelle d’orso davanti a un focolare”.
Partimmo da Dire Daua su una camionetta il 25 marzo 1942, attraversando l’orrido Ogaden con le sue sabbie rosse che ci ridussero come indiani d’America.
Ricordiamo che ci seguiva dietro di noi un’altra macchina con un’altra famiglia italiana di cui non rammentiamo il nome.
Arrivammo a Mogadiscio il 1 aprile 1942.
Le condizioni igienico-sanitarie delle famiglie deportate nei campi di concentramento sopra menzionati era tremenda e critica, aggravata dal loro stato fisico e morale, in una situazione resa tragica non solo dalla carenza di medicinali e personale sanitario, ma anche da cibo scarso, di pessima qualità e scarsità d’acqua potabile.
In aggravante si ricorda il cattivo stato delle baracche infestate di parassiti e tuttavia unico riparo dalle intemperie e dal clima.
La presenza di termiti ed insetti vari era la norma e altrettanto la diffusione di epidemie (solo per il morbillo morirono più di cento bambini).
La coabitazione e promiscuità forzata costituivano insieme al resto una costrizione morale, imposta a persone civili che, senza aver partecipato ad azioni belliche, erano state private di tutto a partire dagli effetti famigliari per arrivare agli effetti personali più minuti oltre a casa, lavoro e futuro.
1941, L’Inghilterra informa L’Italia tramite gli Stati Uniti
Alla fine del 1941 il governo britannico informò il governo italiano tramite quello degli allora neutrali Stati Uniti d’America che, non potendo garantire l’incolumità degli italiani, sarebbe stato costretto di far fronte dell’odio degli indigeni , ovvero a trasferire la popolazione civile in campi di internamento (notare la falsa distinzione di internamento e non di concentramento) nei suoi possedimenti coloniali di Somaliland, Sudafrica, India, Australia.
Nacque così in Italia, l’angosciosa preoccupazione per migliaia di inermi che sarebbero stati costretti ad affrontare il pericolo di viaggi in mare insidiato da mine e da sommergibili e a vivere in climi malsani e debilitanti.
Accettato così il punto di vista britannico, alla fine del maggio 1941 si avviarono attraverso l’ambasciata statunitense i primi contatti che in seguito all’entrata in guerra degli Stati Uniti, proseguirono tramite le rappresentanze diplomatiche svizzere e svedesi“.
L’evacuazione non poteva che realizzarsi per via mare.
Le Navi Bianche
L’Italia propose il transito per il canale di Suez, ma l’Inghilterra si oppose fermamente per ragioni militari e di segretezza, per cui non rimase che organizzare il trasporto tramite la circumnavigazione dell’Africa da Gibilterra al Capo di Buona Speranza e al Corno d’Africa, con un tragitto di circa 22mila miglia, quattro volte superiore al tragitto più corto.
Alle condizioni imposte
L’Italia avrebbe dovuto provvedere a rifornire di carburante le navi in navigazione tramite navi cisterna, munite di contrassegni concordati tra i belligeranti; doveva impegnarsi a pagare in oro i rifornimenti di acqua e di viveri prelevati durante i viaggi e a non rimpatriare nessun militare o uomo tra i quindici e i sessant’anni.
Pena prevista: la confisca della nave.
La missione umanitaria, organizzazione
Accettate le condizioni, il governo italiano non lesinò sulle spese, dovendo dimostrare nel mondo le doti della disciplina e perfezione nell’organizzare una missione umanitaria.
Fu nominato come capo responsabile della missione Francesco Saverio Caroselli che scelse come collaboratori il tenente colonnello Valentino Vecchi, l’ispettore generale della sanità prof. Alberto Ciotola e l’accademico d’Italia Francesco Coppola.
Duilio, Giulio Cesare, Saturnia, Vulcania
Dopo accurato esame della situazione furono scelte le turbonavi gemelle Duilio e Giulio Cesare e le motonavi gemelle Saturnia e Vulcania.
E iniziò la trasformazione delle navi per realizzare una struttura ospedaliera con saloni attrezzati e dormitori in modo da poter ospitare 2500 persone ognuna.
Croce Rossa Italiana incaricata dei servizi sanitari
La Croce Rossa Italiana fu incaricata di provvedere ai servizi sanitari e medici.
Su ogni nave furono allestiti:
- un reparto ospedaliero con 150 letti,
- una sala parto,
- due sale operatorie,
- un gabinetto batteriologico,
- un gabinetto dentistico,
- uno farmaceutico,
- un reparto inefettivi.
Furono installati anche:
- un ufficio postale,
- un Ufficio del Banco di Roma e
- uno della Banca Nazionale del Lavoro;
- saloni da parrucchiere per signora,
- barberia,
- calzolaio,
- discoteca,
- biblioteca,
- cinematografo,
- stamperia di edizioni in formato ridotto dei quotidiani Il Corriere della Sera, del Popolo d’Italia, del Giornale di Italia.
Furono imbarcate casse di giocattoli, migliaia di capi di vestiario, caschi coloniali, corredi per neonati, macchine da cucire, migliaia di barattoli di borotalco.
All’esterno le navi furono dipinte di bianco (da cui il nome Le Navi Bianche) e sulle fiancate furono aggiunte quattro grandi croci rosse e in mezzo la bandiera italiana.
Sui fumaioli furono verniciate croci bianche su sfondo blu.
Per il rifornimento di carburante fu inviata inizialmente la nave cisterna Lucania che, pur munita di concordati contrassegni fu affondata nel Mar Mediterraneo da un sommergibile inglese il 12 febbraio 1942, mentre si trasferiva da Taranto a Genova.
Fu allora sostituita dalle navi cisterna Arcola e Taigete che si trovavano internate nelle isole di Capo Verde dove si erano riparate dopo il 10 giugno 1940.
Alcuni medici seguirono dei corsi a livello universitario per le necessarie cognizioni e esperienza in materia di malattie tropicali; preparazione simile anche per le Dame della Croce Rossa e per le infermiere.
Particolare cura fu anche posta per l’assistenza religiosa.
Così tutto fu predisposto e pronto per la grande avventura.
Aprile 1942, le Navi Bianche salpano dall’Italia
Il Saturnia salpò da Trieste il 4 aprile 1942 agli ordini del comandante Gladulich.
Il Vulcania su cui era imbarcato il capo missione Francesco Saverio Caroselli, salpò da Genova il 5 aprile al comando del capitano Ottino.
Il 6 aprile le due navi si incontrarono a sud di Maiorcae proseguirono per Gibilterra dove imbarcarono la commissione britannica incaricata di pilotare le navi lungo tutto il viaggio e verificare il rispetto degli accordi.
Fu imbarcato anche un picchetto armato e fu messa sotto controllo inglese la stazione radio.
Da Gibilterra le navi partirono l’8 aprile e, seguendo rigidamente le rotte imposte dall’ammiraglio britannic, il 20 aprile raggiunsero le isole del Capo Verde, fermandosi un giorno per rifornimento nafta, acqua dolce e viveri, il 26 a Port Elisabeth in Sud Africa per un nuovo rifornimento e infine giunsero a Barbera nel Somaliland il 5 maggio 1942.
Le navi Duilio e Giulio Cesare partirono dall’Italia il 12 aprile inizialmente destinate rispettivamente a Massaua e Mogadiscio (in effetti a Mogadiscio era stato predisposto un primo elenco di rimpatriandi ed erano state predisposte anche le vaccinazioni).
Poi durante la navigazione il capo missione Caroselli, saputo dello stato dei rimpatriati in Somaliland, le dirottò a Berbera, dove, seguendo la stessa rotta delle prime navi, giunsero il 12 maggio 1942.
Tutte le navi navigarono pienamente illuminate di notte per essere ben visibili a sommergibili amici e nemici.
All’arrivo a Berbera le navi tutte si pavesavano di bandiere tricolori e gli altoparlanti diffondevano gli inni nazionali.
La gioia mista a sorpresa e incredulità, scoppiava negli animi dei profugh, raccolti nei campi di concentramento.
Negli animi di quelli vi era anche una certa amarezza nel pensare che rimpatriando rinunciavano definitivamente a un territorio che avevano visto come una parte della patria e in cui speravano di poter vivere come a casa propria e non come in terra di emigranti.
“Noi così lasciammo l’Etiopia, svagando un sogno in rosa che ci fu vietato.
Quando dal monte, discendendo verso Berbera, vedemmo il mare e in esso le navi e su di esse il tricolore, ecco esplose incontenibile la gioia e alto salì alla divenuta certezza della destinazione Italia.
Subitamente disparvero i valori in cui già credemmo, le fiducie che già mostrammo le speranze che già nutrimmo.
Dimenticammo gli anni prodigiosi appena conclusi ai quali a noi toccò forse immeritevolmente di essere chiamati ed eletti, […].
Arrivammo in Africa africanisti, ne ripartimmo africani“.
L’imbarco fu particolarmente controllato dagli inglesi che arrivarono persino a far spogliare alcune donne molto magre per accertarne il sesso e donne incinte per accertarne la vera pancia!.
Era tassativamente vietato portare qualsiasi cosa al di fuori degli indumenti personali.
Tutti A Berbera, per l’imbarco
Fu così che da Dire Daua a bordo di una camionetta carica di donne e bambinetti il 12 aprile 1942 iniziai l’itinerario sulle piste sassose e sabbiose che avevano quali tappe Giggiga, Hargheisa, Mandera, e Berbera dove arrivammo 5 giorni dopo.
Attraverso una nube di polvere rossa che si dissipava lentamente ecco infine apparire, al di là di una svolta della stretta carreggiata, due navi bianche all’ancora nella rada che si spalancava alla nostra vista laggiù, sotto di noi.
Navi italiane, senza dubbio.
Era dunque vero: l’Italia aveva mandato a prenderci.
Fu un delirio, le donne piangevano, gridavano, pregavano ad alta voce.
Ci trovammo sulla maona (Ndr. la maona è una grande chiatta con o senza motore usata per raggiungere le navi in rada che non possono raggiungere la riva a causa di marosi, scogliere o basso fondale) martellata dal sole.
Temperatura sopra i 45° Celsius, bambini che svenivano, donne che gridavano, colpi di sole, colpi di calore… quanto tempo impiegò il rimorchiatore a trainare la maona sotto il Duilio, non lo rammento.
Ricordo l’urto leggero che segnalava l’accosto e il movimento scomposto della gente che affollava tumultuosamente la chiatta e sospingeva, premendo perché ancora temeva l’intervento di qualcuno che, proprio all’ultimo momento potesse respingerla, trattenerla, rimandarla dietro il filo spinato.
Eppure proprio in quel caos scaturirono decine di bandiere tricolore che, evidentemente, erano state celate nei miseri bagagli dei deportati; questa incredibile visione dei vessilli agitati sopra la massa della folla premente, emozionò l’equipaggio delle navi che – avrebbero poi riferito- non l’avrebbero dimenticato mai più.
Rammento il brulichio e il spingi spingi verso la passerella della nave, il lento sgocciolare, nella strettoia tra i corrimani, delle donne dei bambini, degli anziani che si inerpicavano stremati, affannati e insicuri, sugli scalini che, dal livello del mare si inerpicavano lassù sul ponte, dove marinai, infermieri, crocerossine, camerieri, che sembravano innaturalmente pallidi a confronto con le nostre facce abbrustolite e smunte, tendevano le mani contro di noi, gridando che eravamo i benvenuti a bordo”.
Per fortuna una volta a bordo, l’assistenza fornita dal personale italiano fu meravigliosa e di colpo svanirono preoccupazioni e dubbi.
A iniziare dal vitto, dalle cuccette con materassi lenzuola e coperte, dall’assistenza sanitaria accurata e non ultima l’assistenza spirituale.
Tutto contribuì a consolare i rimpatrianti che lasciavano affetti (mariti, figli, fidanzati), case e beni, per non parlare di vedove, orfani, e madri che piangevano le creature morte nei campi di concentramento.
Alcuni uomini tentano la fuga dai campi militari
La tentazione di raggiungere l’Italia era sentita fortemente anche nei campi di concentramento dei militari.
Tre di essi, scappati di notte da un campo, incuranti del pericolo dei pescecani abbondanti nell’oceano indiano e quindi anche nel golfo di Aden, raggiunsero a nuoto il bordo del Vulcania e furono imbarcati di nascosto nell’equipaggio.
I militari britannici della scorta, venuti a conoscenza del fatto, minacciando il sequestro della nave, chiesero la consegna dei prigionieri.
Costoro, al fine di evitare inconvenienti ai compatrioti, si consegnarono spontaneamente, ponendo fine alla loro rinata speranza di rimpatrio.
Le Navi Bianche salpano da Berbera
Finalmente le navi levarono l’ancora partendo da Berbera il 17 maggio 1942 il Saturnia e il Vulcania, il 24 maggio 1942 il Duilio e il Giulio Cesare sulla stessa rotta.
Iniziava il tanto desiderato, atteso, sospirato viaggio, pieno di incognite.
Scrive Massimo Zamorani a Napoli:
“La sera stessa dell’imbarco, quando la luce rutilante del tramonto pareva incendiasse il color ocra carico delle alture che fanno da spalliera all’abitato di Berbera, affacciato al parapetto della nave, guardavo la costa e mi venne irragionevole, folle – ma la sensazione mi è rimasta appiccicata alla pelle e la rivivo vivacemente ancora- la sensazione di rinunciare a tornare in Italia e ributtarmi per ritornare laggiù.
Credevo che l’Africa fosse mia, mi sembrava di disertare partendo”.
Inquadramento dei ragazzi e situazione degli imbarcati
Subito, dal primo giorno di navigazione, vengono impartite disposizioni per il miglior esito della Missione.
Il colonnello Bernardo Valentino Vecchi personalmente sul Vulcania e per mezzo dei suoi rappresentanti sulle altre navi, guidava la complessa organizzazione dell’operazione Rimpatrio.
Scrive il colonnello Vecchi:
“Quale unico ufficiale dell’Esercito, il Governatore (Caroselli) mi affidò l’incarico di attuare personalmente sul Vulcania coordinandolo con gli altri piroscafi, l’inquadramento disciplinare dei ragazzi dai 10 ai 15 anni.
Si era pensato anche ai ragazzi e alle condizioni di abbandono morale e intellettuale a cui certamente erano stati lasciati nei campi di concentramento, senza possibilità di alcuna forma educativa, né il freno morale di padri o del focolare costituito.
Immaginavo che tale elemento avrebbe dato non poco disturbo a bordo, nella ristrettezza dello spazio e nella promiscuità in cui tutti dovevano rispettare disposizioni, regole e restrizioni inevitabili, comprese quelle inerenti ai contatti tra i sessi…per cui mi prefissi di dare un tono piuttosto rigido all’inquadramento., ricorrendo all’infallibile sistema di investire di responsabilità disciplinare soggetti della formazione.
Stamane l’altoparlante ha chiamato l’adunata dei ragazzi e ragazze di oltre 10 anni di età -bei figlioli e belle figliole- visi straniti dalla novità di trovarsi inquadrati dopo due anni di doloroso sbandamento – ma non hanno affatto dimenticato quello che è stato loro insegnato sino all’ultimo giorno della resistenza e poi nascostamente ancora nei campi di concentramento- sicché al primo Attenti! il ponte trema sotto la battuta sincronica e perfetta dei piedi.
Poche avvertenze capitali: l’inquadramento è obbligatorio; i servizi sono di ronda.
Di piantone ai passaggi vietati, ai rubinetti dell’acqua refrigerata, agli uffici, all’ospedale, oppure di aiuto ai reparti assistenziali per la distribuzione degli indumenti, ai magazzini, agli ambulatori.
Un’adunata generale al mattino, alzabandiera con commento del bollettino di guerra e un po’ di ginnastica e canto.
Poi chi è comandato va al proprio servizio, gli altri o alla piscina o al ponte di ginnastica.
La sera adunata per l’ammaina bandiera, rapporto dei capi plotone e dei capi squadra.
Entro 48 ore dall’imbarco viene distribuita a tutti una sahariana, casco coloniale, scarpe, mantella, maglietta e basco; fasce blu cingono il braccio dei comandanti in servizio e basta quel palmo di stoffa perché anche i ragazzetti di 10 anni si attribuiscano una loro dignità, mostrandosi seri e impettiti dappertutto”.
Uno dei paragrafi del citato libro del Colonnello Vecchi a cui si è riferito il Sig. Franzone è il seguente:
“Sorprendente l’incomprensione di tanti rimpatriati per il valore materiale e morale di questo viaggio che è costato tanto denaro al paese e tante fatiche nostre.
Poco apprezzamento per quanto facciamo, scontento nei più, insofferenza e irritazione; manifestazioni di disordine mentale e spirituale che preoccupa; continua negli imbarcati uno stato di esaltazione da cause complesse: emozione di trovarsi su una nave diretta in patria, strani stati d’animo, fisici scossi, menti alterate, proteste fuori luogo.
La promisquità ed i contatti collettivi imposti dalla carenza di spazio, la stessa possibilità di concedersi liberamente sigarette, vino, liquori, il sentirsi sicuri e liberi dai continui controlli polizieschi del nemico, faceva sì che quella massa du esseri umani che rappresentavano tutta la gamma delle età della scala sociale, delle doti fisiche, dell’intelligenza, manifestassero tale irrequietezza morale e materiale ed assumessero atteggiamenti talmente inaspettat, da stancarci indescrivibilmente tutti quanti: funzionari, medici, crocerossine, personale della Missione e di bordo.
Era un vero tour de force anche per abituarci a trattare un elemento tanto eterogeneo, così ricco di atteggiamenti imprevisti e dalle reazioni più impensate”.
Per noi risulta evidente che gli accenni di Vecchi sono riferiti in generale ai profughi provenienti dalle terribili esperienze dei campi di concentramento del SOmaliland.
Giurerei – e i ricordi dei rimpatriandi raccolti in questo articolo lo dimostrano- che gli imbarcati dall’Eritrea e dalla Somalia non si comportavano tanto male, anche se qualche caso isolato potrà essersi verificato.
Scrive infine lo stesso colonnello Vecchi: “In tutti i servizi ausiliari e anche in quelli sanitari, diedero un prezioso e volenteroso concorso i ragazzi inquadrati e comandati a turno.
Le crocerossinee le ausiliarie, aiutate dai ragazzi, distribuiscono completi e variati indumenti”.
Chiuso con quanto riportato sopra l’incidente Franzone- Rimpatriati, proseguiamo il racconto del viaggio.
Uno dei compiti affidati ai ragazzi era quello di osservare il mare da prua, da babordo e da tribordo alla ricerca di eventuali mine vaganti.
Come sempre nei viaggi in mare, equipaggio e passeggeri erano tenuti a effettuare prove di abbandono nave con relative obbligo di indossare cinture di salvataggio contro qualsiasi rischio.
C’era anche il pericolo che qualche sommergibile nemico o amico, non informato, facesse qualche brutto scherzo!.
Durante il viaggio si ebbero fatti allegri come nascite, comunioni, cresime, compleanni, ma anche fatti luttuosi, con decessi di adulti e anche di bambini.
Le esequie in mare erano fatte di notte, a questo proposito scrive Maria Candela: “Rammento una certa osservazione di mia madre – la nave sta virata particolare di notte e questo spostamento si compie quando si getta qualcosa di pesante da poppa. Durante questa lunga e pericolosa traversata non è possibile conservare i corpi di chi dovesse morire durante la navigazione, quindi vengono gettati in mare; per evitare il risucchio delle eliche, si cerca di compiere una deviazione affinché i corpi non vengano danneggiati dalle grosse eliche”.
Articolo in aggiornamento.
Vanni Bertozzi (1935) è nato a Firenze e ha vissuto l’infanzia ad Addis Abeba (Etiopia).
Giornalista ha collaborato con diverse testate come freelance, corrispondente per l’Italiana Publisher di Melbourne e nel 1991 ha assunto la direzione dell’agenzia di stampa africana APA.
Membro dell’Association for Phisically Disable of Kenya Coast Branch e promoter nell’ufficio di rappresentanza diplomatica di Livorno per la Repubblica di Liberia.
Gli è stata conferita la laurea honoris causa in giornalismo.
Ha operato come ambasciatore e coordinatore di Telethon ed è insignito della Croce di Malta – Assisi “Knights of peace”.
biografia di Vanni Bertozzi
di Vanni Bertozzi
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